Siamo qui su un blog dal tema raccontare, se ogni tanto non vi racconto una storia questo blog non avrebbe molto senso di esistere... Dopo la storia intitolata L'Astronauta, vi riporto qui in quest'ultimo (per ora) post un'altra storia di mia ispirazione a partire da uno scrittore e poeta che abbiamo già incontrato in un precedente post.
Se io avessi una
botteguccia
fatta di una sola
stanza
vorrei mettermi a
vendere
sai cosa?
La speranza.
“Speranza a buon
mercato!”
Per un soldo ne
darei
a un solo cliente
quanto basta per
sei.
E alla povera gente
che non ha da
campare
darei tutta la mia speranza
senza fargliela
pagare.
– Gianni Rodari
TRA QUATTRO MURA
«Facciamo un gioco,» mi disse mio fratello «nascondiamoci
dentro l’armadio.»
Avevamo tirato fuori tutti i nostri vestiti e li avevamo adagiati sui
letti, avevamo tirato fuori tutte le nostre scarpe e queste erano ora sparse
per tutto il pavimento, così come gli zaini e i borsoni, i cappelli e le
sciarpe e i giochi che da piccoli amavamo tanto ma che con il crescendo ci
eravamo scordati.
La mamma si sarebbe arrabbiata tornando a casa e osservando tutto
quel casino nella nostra stanza, lo sapevo, ma mio fratello mi aveva guardato e
con un’alzata di spalle era entrato nell’armadio. Io avevo guardato la nostra
cameretta, e poi lo avevo seguito come facevo sempre. Mi era sempre piaciuto
passare il tempo con mio fratello, e lui aveva sempre il modo giusto per farmi
sentire felice e per farmi divertire. Nostra mamma lavorava molto, per lunghe e
molte ore al giorno, per portare il cibo in tavola e per farci avere tutto
quello che potevamo desiderare, anche se non chiedevamo mai molto perché
eravamo consapevoli che non ci meritavamo quello che lei faceva per noi. Mi
dispiacque seguire mio fratello lasciando quel disordine nella nostra
cameretta, ma ero troppo curioso di venire a scoprire quale gioco si sarebbe
inventato questa volta per preoccuparmene più di tanto.
«Dai, entra» mi spronò mio fratello, prendendomi quindi per un
polso e tirandomi dentro lui stesso, per poi chiudere la porta dell’armadio
alle mie spalle.
Mi ci vollero alcuni secondi per abituare gli occhi al buio totale
all’interno dell’armadio, ma poi iniziai a vedere delle luci. Erano piccole e
di un giallino pallido, una delle tonalità del mio colore preferito, e sembrava
volessero dirmi di seguirle.
“Vieni, vieni da questa parte,” sembravano sussurrarmi.
Cercai di chiedere spiegazioni a mio fratello, ma non riuscii a
individuarlo nonostante ne sentissi la sua presenza accanto a me. Sapevo che
eravamo premuti l’uno contro l’altro nell’armadio, ma mi parve di essere da
solo. Girai su me stesso per quanto mi era possibile in quello spazio
ristretto, e dopo aver compiuto un giro di trecentosessanta gradi, ritrovandomi
nuovamente di fronte alla scia di lucine di un giallino pallido, iniziai a
camminare.
Non compresi, all’inizio, come mi era possibile proseguire così a
lungo in quello spazio largo a malapena mezzo metro, ma percorsi una strada a
tratti impervia e a tratti piacevole. Era notte, e non vedevo quasi nulla al di
fuori delle lucine che erano diventate la mia guida. Mi orientavo principalmente
grazie a loro, al rumore dei miei passi sul selciato e al rumoreggiare del mare
alla base della scogliera. Ogni passo mi poteva essere fatale, poiché non vi
era un criterio logico per cui il sentiero fosse ora semplice ora difficile,
poiché sentivo sotto i miei piedi il terreno irregolare, roccioso e
sdrucciolevole, e giacché la brezza marina era, in quei tratti più malagevoli,
un forte vento gelido.
Eppure, non riuscivo a fermarmi, a tornare indietro. La mia
curiosità del venire a scoprire cosa avrei trovato alla fine del percorso fatte
di lucine di un giallino pallido era notoriamente più vigorosa del mio senso di
lucidità e sicurezza. Un paio di volte, infatti, avevo rischiato di precipitare
nello strapiombo, fortunatamente in entrambi i pericoli corsi mi ero riuscito a
rimettere sul percorso dopo essermi, la prima volta, aggrappato a una radice e,
la seconda volta, essere stato soccorso da una creatura gentile che però non
saprei neanche come descrivere.
Sembrava che fossi quasi arrivato sulla sommità di una collina, un
solo grande pino a osservare una stellata pazzesca sopra e il mare dinnanzi e
le lucine come lucciole tutt’attorno a egli, quando sentii la voce di mio
fratello.
«L’hai vista?» mi domandò, tirandomi fuori dall’armadio e
iniziando a rimettere tutto il suo contenuto ordinatamente al suo interno. «La
Speranza.»
Non compresi, scossi la testa.
«La Speranza?» domandai aggrottando la fronte, chinandomi a
raccogliere un paio di scarpe per riporle nuovamente nella scarpiera
all’interno dell’armadio.
«La Speranza» confermò lui. «È lì, sempre, anche dove meno te
l’aspetti, anche quando pensi che tutto quanto sia perduto. Lei c’è sempre, e
s’illumina di più quando le difficoltà che affronti sembrano essere
insormontabili.»
Annuii. Non fui sicuro di capire allora, perché l’unica cosa che
vidi alla fine di quel gioco fu l’Albero delle Lucciole in una meravigliosa
notte stellata. Ma, ora, capisco perfettamente cosa intendesse mio fratello.